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Una delle prime cose di web design che ho scritto sul mio blog è una critica piuttosto feroce di quello che all'epoca era il nuovo sito dell'edizione italiana di Wired. L'ho scritta il giorno in cui il nuovo sito è stato messo online e pubblicata il giorno dopo.
Quel post è stato il mio primo exploit. Google Analytics dice che nella prima settimana è stato visto un po' più di trecento volte con un tempo medio sulla pagina intorno ai quattro minuti: un'enormità per un blog sconosciuto come il mio. Molti lettori erano addetti ai lavori e chi è arrivato su quella pagina il post l'ha letto davvero. Di sicuro ha contribuito a togliermi dall'anonimato e a far girare il mio nome. Magari in qualche modo mi ha anche portato dei clienti, vai a sapere. Di sicuro mi ha fatto ottenere l'attenzione e l'approvazione di un po' di persone: persone di cui io volevo l'attenzione e l'approvazione.
Oggi ripenso a quel post con una discreta dose di imbarazzo. Imbarazzo blandito solo in parte dalla comprensione che posso decidere di concedere al me stesso di cinque anni fa: freelance da nemmeno un anno, spaventato marcio e quindi ostentatamente pieno di certezze, bisognoso di fare un po' di casino e di attirare l'attenzione. Imbarazzo perché a quel sito hanno lavorato decine di persone per mesi. Facendo del loro meglio e prendendo decisioni in contesti e per raggiungere obiettivi che non conoscevo né conosco. Mediando, negoziando, discutendo, arrabbiandosi. Trovando un compromesso e di sicuro a volte accettando decisioni che non condividevano. Presentando alla fine – come succede sempre, con i siti ma non solo – un lavoro incompleto e imperfetto. Non concluso, perché un sito non lo è mai. E quindi pronti a ricominciare il giorno dopo per migliorare, aggiustare, misurare i risultati, ripartire da capo.
Chiunque abbia progettato qualcosa conosce la misura delle aspettative, la quantità delle speranze e dei timori che accompagnano il momento del lancio. Chiunque mostri pubblicamente il frutto del lavoro sudato di mesi merita rispetto. Anche sostegno, ascolto e attenzione, se li si vuole dare. Sennò un po' di sano silenzio non guasta. Ecco invece qual è stato il mio contributo di allora: il mio personale quaderno delle doglianze, l'enumerazione arbitraria e disinformata delle cose che non mi piacevano, di quelle che secondo me erano storte o sbagliate, buttata giù all'istante e servita calda perché tutti potessero essere d'accordo con me.
Mercoledì sera mentre tornavo a casa con questa newsletter lasciata a metà da finire ho letto una cosa che ha scritto Federico su Facebook che c'entra molto e secondo me risuona bene con quello che sto scrivendo io qui. Federico parla di un suo giudizio rapido, sommario e negativo sul nuovo manifesto del Salone del Libro di Torino, e a un certo punto scrive: «A me pare brutto e proverò ad argomentare, ma avrei dovuto farlo da subito o tacere. Quell'ahaha invece era solo, ora parmi, un desiderio di conferma e di riconoscimento fra pari, cosa alla quale Facebook ci porta furiosamente e alla quale è facile e dolce cedere». È Il post in cui si evidenzia l'inadeguatezza di un prodotto, un servizio, o un'attività: un format di successo a cui ho partecipato più volte e da cui ho deciso di provare a tirarmi fuori.
Vedo o sperimento qualcosa che non mi piace, produco subito una reazione sagace, sarcastica o ironica, rapida e tagliente oppure lunga, argomentata e approfondita: la sostanza non cambia. La condivido online, cerco e ottengo la conferma del riconoscimento e dell'approvazione dei miei pari. La ottengo e identificarsi è facile: ognuno può raccontare il suo aneddoto nei commenti. Tutti insieme ci diamo di gomito e ci diciamo: «han fatto questa cosa e hanno sbagliato, guarda 'sti scemi. Dai, scuotiamo la testa complici e sconsolati e ridiamone insieme».
Può darsi che farlo serva a me: a migliorare la mia reputazione, a creare consenso, attenzione e condivisione e un seguito un po' più folto. Nel frattempo non serve a niente e a nessun altro. È un giudizio disinformato, epidermico, senza tempo né respiro, senza profondità e senza scopo che non sia la legittimazione di sé e di chi lo porta. È un giudizio che molto difficilmente porterà con sé qualcosa di utile e costruttivo per chi è giudicato e che altrettanto facilmente avrà su di loro effetti negativi proporzionali alla sua risonanza e alla sua diffusione. È un giudizio incurante e irresponsabile: arriva veloce, dice quello che deve dire e se ne va ignaro delle sue conseguenze. Pensare che un giudizio del genere possa aiutarmi a migliorare la mia reputazione, a costruire consenso, a portarmi attenzione, condivisione e un seguito un po' più folto mi fa morire di vergogna.
Le cose fatte male esistono, certo che sì. A volte è un problema sistemico, altre volte dietro ci sono ragioni su cui si può lavorare per provare a risolverle. Se vedo qualcosa di fatto male, sono in grado e mi interessa posso decidere di prendermi un po' di tempo per capire e poi dare un riscontro e un consiglio informati. Altrimenti posso non fare niente di niente e andare semplicemente avanti con la mia giornata.
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